Diario di un Viandante

La bellezza è negli occhi di chi legge

La Repubblica di Sabbiolino – Francesco Pietro Cristino

Eccoci qui, dopo una lunga pausa e diverse peripezie si ricomincia con la sana abitudine del Diario di lettura. E si ricomincia con un saggio – nello specifico, un saggio che tratta di un argomento che si trova a metà strada tra l’attualità e la Storia: “La Repubblica di Sabbiolino – Ddr… ma non troppo!” di Francesco Pietro Cristino.

Cristino è un giornalista, vice-caporedattore della redazione interni del Tg1 della Rai. Qualche settimana fa mi ha contattato per chiedermi se fossi disposto a leggere il suo ultimo libro e a fargli sapere cosa ne pensassi. Il libro racconta la storia della Germania Est e della caduta del muro di Berlino dal punto di vista inedito di Sabbiolino, il protagonista del “Saluto della sera”, un programma per bambini trasmesso tutte le sere sulla tv della vecchia Ddr. Sì, Sabbiolino, lo stesso personaggio del folklore nord-europeo che mette a dormire i bambini e porta sogni d’oro facendo cadere una sabbiolina magica sui loro occhi – magari lo conoscete come il Sandman del film d’animazione “Le Cinque Leggende”. Ma perché raccontare la Storia delle due Germanie da questo punto di vista? Be’, il motivo è semplice: Sabbiolino è forse l’unico export culturale di successo della Germania Est, tanto che, quando il muro è caduto, ha continuato ad andare in onda e va in onda ancora oggi sui canali della Germania riunificata.

Devo ammettere che “La Repubblica di Sabbiolino” mi ha incuriosito. Qui inserisco la mia professione d’ignoranza: quello della Germania Est e della caduta del muro è un argomento che conosco poco. Ma ho sempre voluto colmare questa mia lacuna – per questo motivo, quando Cristino mi ha scritto, ho pensato che fosse l’occasione giusta. E così, eccomi qua, dopo aver letto il libro e aver scambiato qualche e-mail con l’autore, finalmente a parlarvene!

Veniamo a noi. Come accennavo, “La Repubblica di Sabbiolino” racconta le vicende della Ddr, ovvero della Repubblica Democratica Tedesca (alias Germania Est), dal punto di vista di Sabbiolino e del mondo dell’infanzia. Raccontare la Storia è una sfida insidiosa: si potrebbe pensare che il modo più naturale per farlo sia quello di seguire un ordine cronologico, ma un ordine cronologico implica una struttura narrativa (sia anche la più lineare, formata solo da inizio, svolgimento e conclusione) e una struttura narrativa porta con sé il rischio di semplificare gli eventi e le loro connessioni in uno schema che tradisce la loro reale complessità. Cristino questo lo sa bene e approfitta, infatti, della sua posizione di giornalista e non di storico per poter raccontare gli eventi seguendo un percorso più libero: nel suo libro, la vicenda di Sabbiolino e del suo programma televisivo diventa il fil rouge per non perdersi in un viaggio tra i temi più disparati, dall’infanzia nella Ddr alle differenze economiche tra Est e Ovest nella Germania di oggi, dall’economia di allora alle barzellette come strumento di dissenso politico, dalla limitazione dei viaggi alla caduta del muro, dall’entusiasmo per una libertà ritrovata fino alla cosiddetta Ostalgie – la nostalgia di chi, cresciuto ad Est del muro, ripensa oggi alla sua giovinezza. Scegliendo di organizzare il discorso per temi, Cristino ha così evitato il rischio di fissare la realtà storica in una narrazione semplificante ed è riuscito a rendere giustizia alla complessità degli eventi.

Non solo: proprio grazie alla scelta di organizzare il libro secondo una struttura tematica e non cronologica, capitolo dopo capitolo introduce argomenti sempre nuovi – e questo è sicuramente utile per tenere alto l’interesse (e la curiosità) dei lettori, anche di quelli che non sono abituati a leggere saggi di argomento storico. C’è però un altro rischio: un lettore che conosce poco la storia della Germania Est potrebbe temere di perdersi in una trattazione così libera e pensare che, forse, sia più adatta a chi conosce già la storia e vuole rivederla da una nuova prospettiva. Io stesso, per esempio, l’ho temuto – ma non è andata così. Cristino riprende sempre le informazioni necessarie per seguire il filo del discorso e ti conduce da un argomento all’altro con i tempi giusti. E così, anche un lettore come me, che conosce poco la Storia della Germania Est, è riuscito a leggere tutta “La Repubblica di Sabbiolino” senza confondersi e con una curiosità costantemente rinnovata.

Certo, non posso dire che a fine lettura il libro mi abbia lasciato una conoscenza completa della Storia delle due Germanie, ma questa non era neanche la sua intenzione. Cristino ha scritto “La Repubblica di Sabbiolino” per due diversi pubblici: il primo è quello formato da chi ha già una conoscenza almeno generale dell’argomento, che, attraverso la prospettiva straniante di Sabbiolino, può riflettere sugli eventi da un nuovo punto di vista; il secondo è quello di chi, invece, è completamente a digiuno di queste vicende, ma che può essere incuriosito e invogliato ad approfondirle. Questo era il mio caso e posso dire che, almeno per quanto mi riguarda, è riuscito nello scopo.

Come ho già detto anche a Francesco, una nota separata la merita l’ultimo capitolo: diverso da tutti gli altri, è l’unico che segue una struttura cronologico-narrativa: Cristino racconta degli eventi che hanno portato alla caduta del muro, la sera del 9 Novembre 1989, attraverso una conversazione telefonica con Riccardo Ehrman, il giornalista corrispondente Ansa da Berlino Est che è passato alla storia come colui che con le sue domande ha dato la prima picconata – metaforica, s’intende – al muro. Qui, Cristino dimostra di aver anche talento narrativo, riuscendo a creare tensione nel lettore e un climax che porta a leggere sempre più veloce fino all’evento apicale. La conclusione ideale per questo viaggio in quarant’anni di storia tedesca.

Che altro dire? “La Repubblica di Sabbiolino” è un testo critico che cerca di offrire un punto di vista nuovo sugli eventi della Germania Est e della caduta del muro – il punto di vista di Sabbiolino e di chi in quegli anni era bambino e conosceva la storia filtrata dalle avventure di un pupazzo in televisione. E ci riesce, rivelandosi un libro interessante tanto per chi di questa parte di Storia ha solo una conoscenza generica (come me), quanto per chi invece la conosce già ed è curioso di rivederla sotto una nuova luce.


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Se questo articolo ti è piaciuto, potrebbe interessarti anche l’articolo sulla poesia “Ultimo Frammento” di Raymond Carver! Lo trovi qui.

Jorge Luis Borges – Poesia dei doni

A Marìa Esther Vàzquez

Nessuno riduca a lacrima o rimprovero
questa dichiarazione della maestria di
Dio, che con magnifica ironia
Mi diede insieme i libri e la notte.

Di questa città di libri fece padroni
occhi privi di luce, che soltanto
possono leggere nelle biblioteche dei sogni
gli insensati paragrafi che cedono

le albe al loro affanno. Invano il giorno
prodiga per loro i suoi libri infiniti,
ardui come gli ardui manoscritti
che perirono ad Alessandria.

Di fame e di sete (narra una storia greca)
muore un re tra fontane e giardini;
io affatico senza rotta i confini
di questa alta biblioteca cieca.

Enciclopedie, atlanti, l’Oriente
e l’Occidente, secoli, dinastie,
simboli, cosmi e cosmogonie
offrono i muri, ma inutilmente.

Lento nella mia ombra, la penombra vuota
esploro con il mio bastone indeciso,
io, che mi raffiguravo il paradiso
sotto la forma di una biblioteca.

Qualcosa, che certamente non si nomina
con la parola caso, governa queste cose;
un altro ricevette già in altre annebbiate
sere i molti libri e l’ombra.

Vagando per le lente gallerie
sento spesso con orrore sacro
che sono l’altro, il morto, che avrà fatto
gli stessi passi negli stessi giorni.

Quale dei due scrive questa poesia
di un io plurale e di una sola ombra?
Che importa la parola che mi nomina
se è indiviso e uno l’anatema?

Groussac o Borges, guardo questo caro
mondo che si deforma e che si spegne
in una pallida e vaga cenere
che assomiglia al sonno e all’oblio.

(Jorge Luis Borges, Poesia dei doni)


Borges era un lettore appassionato, a tal punto che lui stesso sembrava considerarsi prima un lettore che uno scrittore. Celebre è la citazione “Che altri si vantino delle pagine che hanno scritto;/ io sono orgoglioso di quelle che ho letto”, tratta dalla poesia “Un lettore” e ripetuta dall’autore in numerose occasioni diverse. Da questo, non a caso, è derivata una delle caratteristiche più evidenti e, paradossalmente, originali dell’opera di Borges: quella di essere una letteratura parassitaria, che non trae ispirazione dalla vita ma da altra letteratura.
Certo, è vero – potrete dirmi – ma non è vero anche che tutta la letteratura deriva in qualche modo dalla letteratura che l’ha preceduta? Sì, ma questo è ancora più vero nel caso di Borges, che lo fa in modo più aperto, smaccato e programmatico, tanto nelle sue poesie quanto nei suoi racconti, giocando con i libri che ha letto e amato e con altri che invece non esistono, ma che si inventa lui. Allora non ci sorprende che l’immagine che è rimasta di lui è quella del “topo di biblioteca”, che il lettore medio si immagina Borges come un uomo che ha vissuto più nei libri che nella vita vera. E non ci sorprende che Borges stesso possa scrivere di sé “io, che mi raffiguravo il paradiso/ sotto la forma di una biblioteca” – la stessa biblioteca che è anche un motivo ricorrente in tutta la sua produzione letteraria (ad esempio nel racconto “La biblioteca di Babele”, nella raccolta Finzioni”).

Ma Borges, che amava così tanto leggere, soffriva anche di problemi alla vista. La sua cecità, ereditata dal padre, peggiorò progressivamente anno dopo anno fino a diventare pressoché totale intorno al 1955, lo stesso anno in cui fu anche nominato direttore della Biblioteca Nazionale Argentina di Buenos Aires. Ed è proprio in seguito a questa coincidenza di eventi che scrisse la Poesia dei doni – una poesia che mi ha colpito fin dalla prima volta che l’ho letta.
A colpirmi è stata soprattutto la prima strofa. Perché? Be’, perché in questi quattro versi Borges chiede di non essere compatito e di non rimproverare né Dio né la sorte per questa concomitanza di eventi che di primo acchito verrebbe da definire beffarda, che lo ha privato della vista nello stesso momento in cui ha messo a sua disposizione un’intera biblioteca. Al contrario, è quasi con meraviglia che guarda alla “dichiarazione della maestria di/ Dio, che con magnifica ironia” gli diede insieme “i libri e la notte”. Ma è sorprendente notare, invece, un’altra ironia: quella di Borges, che in questi versi dimostra ancora una volta di saper accogliere anche le cose più serie – anzi, forse soprattutto le cose più serie – con quell’autoironia che lo ha sempre contraddistinto. E, addirittura, di saper trasformare anche momenti come questo in poesia.

Ancora un’ultima cosa. Verso il finale della Poesia dei doni Borges scrive che “un altro ricevette già in altre annebbiate/ sere i molti libri e l’ombra”. A chi si riferisce? Qui Borges parla di Paul Groussac, scrittore argentino che fu direttore della Biblioteca Nazionale di Buenos Aires dal 1885 al 1929, anno della sua morte, e che, come Borges, perse la vista mentre ricopriva questo incarico. Nelle ultime strofe il poeta non si limita a paragonarsi al suo omologo, ma si spinge fino ad identificarsi con lui: “Vagando per le lente gallerie/ sento spesso con orrore sacro/ che sono l’altro”, finendo per mettere in discussione il concetto stesso di identità. “Che importa la parola che mi nomina/ se è indiviso e uno l’anatema?”. Questo in realtà non è una novità per Borges, che riflette sul concetto di io e sul tema del doppio in molti altri suoi scritti, come ad esempio “Borges ed io”, nella raccolta “L’artefice” del 1960 – in cui, per altro, è inclusa anche la “Poesia dei doni”.

E voi, conoscevate questa poesia? Cosa ne pensate?


Copertina libro "L'artefice" di Jorge Luis Borges, edito da Adelphi, in cui è contenuta la Poesia dei doni

Se volete leggere “Poesia dei doni” e altre poesie di Jorge Luis Borges, potete acquistare la raccolta “L’artefice” qui, oppure una selezione dei suoi versi qui. Vi ricordo che, acquistando attraverso questo link, voi pagherete la stessa cifra ma a me sarà riconosciuta una piccola percentuale della vostra spesa e starete quindi contribuendo al mio progetto.

Copertina del libro "Il fattore Borges" di Alan Pauls, edito da Sur.

Se siete interessati all’opera di Borges e volete conoscere meglio questo autore, vi consiglio la lettura del saggio di Alan Pauls “Il fattore Borges”, un ottimo saggio, tanto preciso nel trattare della vita e della poetica del nostro autore, quanto accessibile e piacevole alla lettura. Potete trovarlo qui.

Infine, se l’articolo sulla “Poesia dei doni” di Borges ti è piaciuto, potrebbe interessarti leggere un articolo sulla poesia “Itaca” di Kavafis! Lo trovi qui.

Costantino Kavafis – Itaca

Se ti metti in viaggio per Itaca
augurati che sia lunga la via,
piena di conoscenze e d’avventure.
Non temere Lestrigoni e Ciclopi
o Posidone incollerito:
nulla di questo troverai per via
se tieni alto il pensiero, se un’emozione
eletta ti tocca l’anima e il corpo.
Non incontrerai Lestrigoni e Ciclopi,
e neppure il feroce Posidone,
se non li porti dentro, in cuore,
se non è il cuore a alzarteli davanti.

Augurati che sia lunga la via.
Che sian molte le mattine estive
in cui felice e con soddisfazione
entri in porti mai visti prima;
fa’ scalo negli empori dei Fenici
e acquista belle mercanzie,
coralli e madreperle, ebani e ambre,
e ogni sorta d’aromi voluttuosi,
quanti più aromi voluttuosi puoi;
e va’ in molte città d’Egitto,
a imparare, imparare dai sapienti.

Tienila sempre in mente, Itaca.
La tua meta è approdare là.
Ma non far fretta al tuo viaggio.
Meglio che duri molti anni;
e che ormai vecchio attracchi all’isola,
ricco di ciò che guadagnasti per la via,
senza aspettarti da Itaca ricchezze.

Itaca ti ha donato il bel viaggio.
Non saresti partito senza lei.
Nulla di più ha da darti.

E se la trovi povera, Itaca non ti ha illuso.
Sei diventato così esperto e saggio,
e avrai capito che vuol dire Itaca.


Per chi non lo conoscesse, Costantino Kavafis è stato uno dei più grandi poeti greci del Novecento. In realtà, la sua fama di poeta ha camminato su strade tortuose: Kavafis ha vissuto isolato per gran parte della sua vita e ha fatto circolare le sue poesie quasi sempre solo fra gli amici più intimi; ha avuto anche numerosi detrattori, in particolare i poeti greci del tempo – chiusi alla novità dei suoi versi – ma, dopo la morte, il suo valore è stato finalmente riconosciuto e le sue poesie hanno iniziato a circolare in tutto il mondo. “Itaca” è la più famosa.

In molti dei suoi lavori, Kavafis riprende personaggi, vicende e immagini dal mondo classico – in questo caso, il viaggio di Ulisse per tornare ad Itaca narrato nell’Odissea – e li reinterpreta con gli occhi di un uomo del Novecento. Questo processo di reinterpretazione può avvenire in diversi modi: nella maggior parte dei casi, Kavafis immaginava nelle gesta dei grandi nomi della classicità sentimenti nuovi, privati, taciuti dalla tradizione ufficiale della storia e del mito ed incentra su di essi le sue poesie. Ovviamente la reinterpretazione ha anche un valore di attualizzazione: questi sentimenti, infatti, sono quelli dell’uomo contemporaneo che può così rispecchiarsi nei suoi testi.

In “Itaca”, però, l’operazione che compie è un’altra: il viaggio di Ulisse diventa metafora di un significato esistenziale. Non è un sentimento, quindi, né un’emozione, ma un’idea a venire veicolata attraverso le immagini della classicità.
E di quale idea, di quale significato si tratta? Kavafis è ben conscio che ogni uomo, se vuole dare un senso alla sua vita, deve dare ad essa uno scopo: Itaca, la meta del viaggio, metafora del sogno da realizzare. Ma a questa verità aggiunge qualcosa: che ad essere importante non è tanto la meta, quanto il viaggio – la vita.
Ogni uomo, come Ulisse, intraprende un viaggio per raggiungere la sua meta, la sua Itaca. Kavafis ci invita a non avere fretta di arrivare a destinazione e a far durare il viaggio il più possibile, vivendo fino in fondo ogni esperienza che questo può regalarci. E ci dice anche quali sono queste esperienze: “le mattine estive / in cui […] / entri in porti mai visti prima”, cioè le novita; gli “aromi voluttuosi”, i piaceri; e “imparare dai sapienti”, la conoscenza.
Perché? Perchè è il viaggio la nostra vita e non la destinazione; perché è durante il viaggio che possiamo e dobbiamo vivere e non quando saremo arrivati; perché Itaca, tutto questo, potrebbe non offrircelo e se noi non cogliamo l’occasione di arricchirci di esperienze adesso, rischiamo di non avere più la possibilità di farlo. Itaca, la nostra meta, potrebbe non avere “nulla di più […] da dar[ci]”: la sua ricchezza è il viaggio stesso che ci ha donato, dal momento che senza di lei non saremmo partiti. Fuor di metafora: il più grande valore dei nostri sogni è quello di innescare il movimento e il viaggio che affronteremo per realizzarli, e non quello che ci offriranno una volta giunti a destinazione.

E voi, cosa ne pensate? Conoscevate questa poesia? Come ogni capolavoro, anche “Itaca” si presta a tante interpretazioni diverse quanti sono i lettori: io vi ho raccontato la mia, voi come la leggete?


Raccolta di poesie del poeta greco Costantino Kavafis che contiene "Itaca", pubblicata in Italia dalla casa editrice Einaudi.

Se volete leggere “Itaca” e le altre poesie di Kavafis, potete acquistare la sua raccolta qui. Vi ricordo che, acquistando attraverso questo link, voi pagherete la stessa cifra ma a me sarà riconosciuta una piccola percentuale della vostra spesa e starete quindi contribuendo al mio progetto.

Se questo articolo ti è piaciuto, potrebbe interessarti anche l’articolo sulla poesia “Oh me! Oh vita!” di Walt Whitman! Lo trovi qui.

Raymond Carver – Ultimo Frammento

E hai ottenuto quello che
volevi da questa vita, nonostante tutto?
Sì.
E che cos’è che volevi?
Potermi dire amato, sentirmi
amato sulla terra.


Quando ha scritto questa poesia, Raymond Carver aveva quarantanove anni, era malato di cancro al cervello e ai polmoni e sapeva che sarebbe morto nell’arco di qualche mese. Si è seduto, ha fatto un bilancio della sua vita e quello che ne è uscito sono queste parole. “Ultimo frammento” è pertanto una delle ultime poesie che Carver ha scritto, è stata pubblicata postuma nella sua ultima raccolta e diventata anche suo epitaffio.
Tutte le volte mi colpisce la sensibilità che deve avere avuto un uomo che, giunto alla fine dei suoi giorni, si è guardato indietro e ha scritto questo. Per chi non lo sapesse, Carver non ha avuto una vita facile: ha cambiato molti lavori, quasi tutti umili, ha visto fallire il suo primo matrimonio e ha avuto problemi seri di alcolismo. Insomma, anche lui la sua buona dose di irrequietezza deve essersela portata dentro, come tutti.
Negli ultimi anni, quando finalmente sembrava aver trovato un po’ di tranquillità, sono arrivati anche i problemi di salute. Eppure in questa poesia Raymond sembra essersi messo in pace con se stesso. Finalmente ha capito che tutto quello di cui aveva sempre avuto bisogno per star bene era di sentirsi amato e può dirsi soddisfatto della sua vita perché, alla fine, ha trovato quello che cercava.

“Ultimo frammento” è la mia poesia preferita di Carver e una delle mie preferite in assoluto. Da un punto di vista stilistico amo i componimenti come questo, che prendono un singolo sentimento, un pensiero o un ricordo e ne fanno una poesia compiuta e semplice. Ma non finisce qui, è anche e soprattutto per quello di cui parla che penso abbia un valore. E di che cos’è che parla? Parla del più umano dei bisogni, quello di sentirsi amati. Un bisogno che pervade quasi tutti i nostri comportamenti anche quando non ce ne accorgiamo, soprattutto se consideriamo l’amore in senso ampio includendo anche amicizia, affetto e stima.
Tutti noi facciamo un po’ di fatica a ritenerci soddisfatti delle nostre vite. Molte volte ci sentiamo insoddisfatti o irrequieti senza nemmeno capirne il motivo. Ray ci confessa che per lui la soluzione è stata l’amore. E, senza volerlo ci fa capire che, forse, se tutti ci portiamo dietro una costante irrequietezza è perché abbiamo solo bisogno di sentirci amati. Che, forse, solo la sensazione di essere amati può farci stare veramente bene. Ed io sono d’accordo con lui. Per questo oggi ho deciso di parlarvi del suo “Ultimo frammento”, una poesia d’amore diversa da tutte le altre del suo genere, più forte, più sincera e più umana: perché ci ricorda cos’è importante.


Raccolta di poesie "Orientarsi con le stelle" di Raymond Carver in cui è inclusa la poesia "Ultimo Frammento", pubblicata in Italia dalla casa editrice Minimum Fax.

Se volete leggere “Ultimo frammento” e le altre poesie di Raymond Carver, potete acquistare la sua raccolta qui.Vi ricordo che, acquistando attraverso questo link, voi pagherete la stessa cifra ma a me sarà riconosciuta una piccola percentuale della vostra spesa e starete quindi contribuendo al mio progetto.

Raccolta di saggi "Il mestiere di scrivere" di Raymond Carver, pubblicata in Italia dalla casa editrice Einaudi.

Se volete approfondire la scrittura di Carver, invece, vi consiglio una raccolta di brevi saggi in cui l’autore parla di tecniche di scrittura e della propria poetica: potete trovarla qui.

Se questo articolo ti è piaciuto, potrebbe interessarti anche l’articolo sulla poesia “Oh me! Oh vita!” di Walt Whitman! Lo trovi qui.

Walt Whitman – Oh me! Oh vita!

Oh me! Oh vita! Di queste domande che ricorrono,
Degli infiniti cortei di infedeli, di città gremite di stolti,
Di me stesso che sempre mi rimprovero, (Perché chi più stolto di me, chi più infedele?)
Di occhi che invano bramano la luce, degli scopi meschini, della battaglia sempre rinnovata,
Dei poveri risultati di tutto, delle sordide folle ansimanti che vedo intorno a me,
Degli anni inutili e vuoti del resto, io intrecciato col resto,
La domanda, ahimé!così triste, ricorrente
-Cosa c’è di buono in tutto questo, o me, o vita?

Risposta:
Che tu sei qui – che la vita esiste, e l’identità,
Che il potente spettacolo continua, e tu puoi contribuirvi con un verso.


Eccoci qua, finalmente, dopo qualche mese di pausa, diariodiunviandante.it è tornato online. E, con lui, poco a poco torneranno anche i principali articoli che avevo pubblicato fino a giugno di quest’anno. E quale poteva essere il modo migliore per ricominciare se non ricondividere il primo articolo in assoluto che questo blog abbia visto, che, tra l’altro, parla anche della mia poesia preferita?

“Oh me! Oh vita!” di Walt Whitman non ha bisogno di presentazioni. Oltre ad essere uno dei capolavori del padre della poesia americana, è stata anche resa celebre in tutto il mondo dal film “L’attimo fuggente”. Ma quanti di voi, dopo aver avuto la pelle d’oca (perché so che l’avete avuta) ascoltandola recitata dal Professor Keating, sono andati a cercarsela, a rileggerla e con calma e a soffermarsi sulle parole?
È una poesia preziosa, che tutti dovremmo rileggere ogni tanto perché ha molto da insegnarci sulla vita. Tanto per cominciare riesce a raccogliere quel costante senso di meraviglia e amore per l’esistenza che permea ogni parola scritta dal suo autore e, ancor di più, è il frutto della saggezza pratica, concreta, efficace di chi non si perde in riflessioni astratte ma rimane sempre dentro al flusso dell’esistenza.

Ma cosa ci vuole dire lo zio Walt con queste parole?
Le nostre esistenze sono piene di cose che non ci piacciono, che ci fanno soffrire, che, se potessimo, cambieremmo. Le persone stupide e superficiali, che confluiscono nelle masse. Gli egoisti con i loro “scopi meschini”. Il tempo sprecato e inutile. Quel conflitto, quello struggimento che ci portiamo dentro e che continua a rinnovarsi ogni volta. E, infine, noi stessi, che siamo assediati dalle domande e dai dubbi e logorati lentamente.
Queste sono a grandi linee le cose che ha elencato Walt Whitman, ma se ne possono aggiungere altre – ognuno ha le sue. A questo punto, però, ci sorge spontanea una domanda: che cosa c’è di buono in tutto questo? Vale a dire: a fronte di tutti i fattori negativi che abbiamo elencato, cosa resta di buono nella vita? Cosa resta di buono nel mondo, nel fatto di essere qui ed ora? O, in altre parole: per quale motivo vale la pena vivere?

Lo zio Walt, come se volesse darci una mano – come se volesse dare una mano ad ogni ragazzo e ragazza, uomo o donna che si sentono un po’ smarriti – ci dà la risposta. Ed è una risposta tanto semplice quanto profonda:
Primo, che tu sei qui, che la vita esiste. Ma come: la domanda era “Che cosa c’è di buono nella vita?” e la risposta è “Che la vita esiste”? Sì. Walt Whitman ci vuole ricordare che la vita stessa è intrinsecamente degna di essere vissuta. Bisogna solo imparare ad amarla. Non è perché la vita sia degna di essere vissuta che uno se ne innamora ma è perché uno decide di amarla che diventa degna di essere vissuta. E in questo Whitman era un maestro. Non ci credete? Fate un tentativo.
Secondo, l’identità. La vita è intrinsecamente degna di essere vissuta, sì, ma una vita vissuta senza essere noi stessi è una tortura. Dobbiamo essere noi stessi, fare quello che amiamo e dedicarci a quello in cui crediamo, solo così saremmo davvero soddisfatti e in pace. Solo così ne varrà davvero la pena.
La poesia potrebbe finire qui, c’è già tutto: il cosa e il come. E invece aggiunge un ultimo punto: “che il potente spettacolo continua e che tu puoi contribuirvi con un verso.”
Ma devo davvero spiegarvi che cosa vuol dire?
L’universo e l’esistenza, che prima, quando si parlava dei lati negativi, erano “tutto questo”, sono diventati ora “il potente spettacolo”, mentre parliamo dei lati positivi: in questa definizione rientra l’intera visione del mondo dello zio Walt. Lui, quando si guardava intorno, vedeva questo: uno spettacolo così potente da suscitare meraviglia, tanto in un filo d’erba che cresce quanto in una stella che brucia, tanto in un bacio di chi amiamo quanto nell’abbraccio di un amico, come se ci fosse magia in ogni cosa.
E la magia più grande è che a tutto questo noi possiamo contribuire. Che possiamo lasciare un nostro segno, aggiungere un verso al poema, una nostra nota alla sinfonia, lasciare la nostra impronta sulla terra: che sarà inutile, perché il tempo cancella ogni cosa; ma sarà nostra, sarà unica e irripetibile e, per noi, non sarà priva di valore.


Raccolta di poesie "Foglie d'erba" di Walt Whitman in cui è contenuta la poesia "Oh me! Oh vita!", pubblicata in Italia dalla casa editrice Einaudi.

Se volete leggere “Oh me! Oh vita!” e le altre poesie di Walt Whitman, potete acquistare la sua raccolta qui. Vi ricordo che, acquistando attraverso questo link, voi pagherete la stessa cifra ma a me sarà riconosciuta una piccola percentuale della vostra spesa e starete quindi contribuendo al mio progetto.

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