Diario di un Viandante

La bellezza è negli occhi di chi legge

Tag: letteratura del novecento

Jorge Luis Borges – Poesia dei doni

A Marìa Esther Vàzquez

Nessuno riduca a lacrima o rimprovero
questa dichiarazione della maestria di
Dio, che con magnifica ironia
Mi diede insieme i libri e la notte.

Di questa città di libri fece padroni
occhi privi di luce, che soltanto
possono leggere nelle biblioteche dei sogni
gli insensati paragrafi che cedono

le albe al loro affanno. Invano il giorno
prodiga per loro i suoi libri infiniti,
ardui come gli ardui manoscritti
che perirono ad Alessandria.

Di fame e di sete (narra una storia greca)
muore un re tra fontane e giardini;
io affatico senza rotta i confini
di questa alta biblioteca cieca.

Enciclopedie, atlanti, l’Oriente
e l’Occidente, secoli, dinastie,
simboli, cosmi e cosmogonie
offrono i muri, ma inutilmente.

Lento nella mia ombra, la penombra vuota
esploro con il mio bastone indeciso,
io, che mi raffiguravo il paradiso
sotto la forma di una biblioteca.

Qualcosa, che certamente non si nomina
con la parola caso, governa queste cose;
un altro ricevette già in altre annebbiate
sere i molti libri e l’ombra.

Vagando per le lente gallerie
sento spesso con orrore sacro
che sono l’altro, il morto, che avrà fatto
gli stessi passi negli stessi giorni.

Quale dei due scrive questa poesia
di un io plurale e di una sola ombra?
Che importa la parola che mi nomina
se è indiviso e uno l’anatema?

Groussac o Borges, guardo questo caro
mondo che si deforma e che si spegne
in una pallida e vaga cenere
che assomiglia al sonno e all’oblio.

(Jorge Luis Borges, Poesia dei doni)


Borges era un lettore appassionato, a tal punto che lui stesso sembrava considerarsi prima un lettore che uno scrittore. Celebre è la citazione “Che altri si vantino delle pagine che hanno scritto;/ io sono orgoglioso di quelle che ho letto”, tratta dalla poesia “Un lettore” e ripetuta dall’autore in numerose occasioni diverse. Da questo, non a caso, è derivata una delle caratteristiche più evidenti e, paradossalmente, originali dell’opera di Borges: quella di essere una letteratura parassitaria, che non trae ispirazione dalla vita ma da altra letteratura.
Certo, è vero – potrete dirmi – ma non è vero anche che tutta la letteratura deriva in qualche modo dalla letteratura che l’ha preceduta? Sì, ma questo è ancora più vero nel caso di Borges, che lo fa in modo più aperto, smaccato e programmatico, tanto nelle sue poesie quanto nei suoi racconti, giocando con i libri che ha letto e amato e con altri che invece non esistono, ma che si inventa lui. Allora non ci sorprende che l’immagine che è rimasta di lui è quella del “topo di biblioteca”, che il lettore medio si immagina Borges come un uomo che ha vissuto più nei libri che nella vita vera. E non ci sorprende che Borges stesso possa scrivere di sé “io, che mi raffiguravo il paradiso/ sotto la forma di una biblioteca” – la stessa biblioteca che è anche un motivo ricorrente in tutta la sua produzione letteraria (ad esempio nel racconto “La biblioteca di Babele”, nella raccolta Finzioni”).

Ma Borges, che amava così tanto leggere, soffriva anche di problemi alla vista. La sua cecità, ereditata dal padre, peggiorò progressivamente anno dopo anno fino a diventare pressoché totale intorno al 1955, lo stesso anno in cui fu anche nominato direttore della Biblioteca Nazionale Argentina di Buenos Aires. Ed è proprio in seguito a questa coincidenza di eventi che scrisse la Poesia dei doni – una poesia che mi ha colpito fin dalla prima volta che l’ho letta.
A colpirmi è stata soprattutto la prima strofa. Perché? Be’, perché in questi quattro versi Borges chiede di non essere compatito e di non rimproverare né Dio né la sorte per questa concomitanza di eventi che di primo acchito verrebbe da definire beffarda, che lo ha privato della vista nello stesso momento in cui ha messo a sua disposizione un’intera biblioteca. Al contrario, è quasi con meraviglia che guarda alla “dichiarazione della maestria di/ Dio, che con magnifica ironia” gli diede insieme “i libri e la notte”. Ma è sorprendente notare, invece, un’altra ironia: quella di Borges, che in questi versi dimostra ancora una volta di saper accogliere anche le cose più serie – anzi, forse soprattutto le cose più serie – con quell’autoironia che lo ha sempre contraddistinto. E, addirittura, di saper trasformare anche momenti come questo in poesia.

Ancora un’ultima cosa. Verso il finale della Poesia dei doni Borges scrive che “un altro ricevette già in altre annebbiate/ sere i molti libri e l’ombra”. A chi si riferisce? Qui Borges parla di Paul Groussac, scrittore argentino che fu direttore della Biblioteca Nazionale di Buenos Aires dal 1885 al 1929, anno della sua morte, e che, come Borges, perse la vista mentre ricopriva questo incarico. Nelle ultime strofe il poeta non si limita a paragonarsi al suo omologo, ma si spinge fino ad identificarsi con lui: “Vagando per le lente gallerie/ sento spesso con orrore sacro/ che sono l’altro”, finendo per mettere in discussione il concetto stesso di identità. “Che importa la parola che mi nomina/ se è indiviso e uno l’anatema?”. Questo in realtà non è una novità per Borges, che riflette sul concetto di io e sul tema del doppio in molti altri suoi scritti, come ad esempio “Borges ed io”, nella raccolta “L’artefice” del 1960 – in cui, per altro, è inclusa anche la “Poesia dei doni”.

E voi, conoscevate questa poesia? Cosa ne pensate?


Copertina libro "L'artefice" di Jorge Luis Borges, edito da Adelphi, in cui è contenuta la Poesia dei doni

Se volete leggere “Poesia dei doni” e altre poesie di Jorge Luis Borges, potete acquistare la raccolta “L’artefice” qui, oppure una selezione dei suoi versi qui. Vi ricordo che, acquistando attraverso questo link, voi pagherete la stessa cifra ma a me sarà riconosciuta una piccola percentuale della vostra spesa e starete quindi contribuendo al mio progetto.

Copertina del libro "Il fattore Borges" di Alan Pauls, edito da Sur.

Se siete interessati all’opera di Borges e volete conoscere meglio questo autore, vi consiglio la lettura del saggio di Alan Pauls “Il fattore Borges”, un ottimo saggio, tanto preciso nel trattare della vita e della poetica del nostro autore, quanto accessibile e piacevole alla lettura. Potete trovarlo qui.

Infine, se l’articolo sulla “Poesia dei doni” di Borges ti è piaciuto, potrebbe interessarti leggere un articolo sulla poesia “Itaca” di Kavafis! Lo trovi qui.

Costantino Kavafis – Itaca

Se ti metti in viaggio per Itaca
augurati che sia lunga la via,
piena di conoscenze e d’avventure.
Non temere Lestrigoni e Ciclopi
o Posidone incollerito:
nulla di questo troverai per via
se tieni alto il pensiero, se un’emozione
eletta ti tocca l’anima e il corpo.
Non incontrerai Lestrigoni e Ciclopi,
e neppure il feroce Posidone,
se non li porti dentro, in cuore,
se non è il cuore a alzarteli davanti.

Augurati che sia lunga la via.
Che sian molte le mattine estive
in cui felice e con soddisfazione
entri in porti mai visti prima;
fa’ scalo negli empori dei Fenici
e acquista belle mercanzie,
coralli e madreperle, ebani e ambre,
e ogni sorta d’aromi voluttuosi,
quanti più aromi voluttuosi puoi;
e va’ in molte città d’Egitto,
a imparare, imparare dai sapienti.

Tienila sempre in mente, Itaca.
La tua meta è approdare là.
Ma non far fretta al tuo viaggio.
Meglio che duri molti anni;
e che ormai vecchio attracchi all’isola,
ricco di ciò che guadagnasti per la via,
senza aspettarti da Itaca ricchezze.

Itaca ti ha donato il bel viaggio.
Non saresti partito senza lei.
Nulla di più ha da darti.

E se la trovi povera, Itaca non ti ha illuso.
Sei diventato così esperto e saggio,
e avrai capito che vuol dire Itaca.


Per chi non lo conoscesse, Costantino Kavafis è stato uno dei più grandi poeti greci del Novecento. In realtà, la sua fama di poeta ha camminato su strade tortuose: Kavafis ha vissuto isolato per gran parte della sua vita e ha fatto circolare le sue poesie quasi sempre solo fra gli amici più intimi; ha avuto anche numerosi detrattori, in particolare i poeti greci del tempo – chiusi alla novità dei suoi versi – ma, dopo la morte, il suo valore è stato finalmente riconosciuto e le sue poesie hanno iniziato a circolare in tutto il mondo. “Itaca” è la più famosa.

In molti dei suoi lavori, Kavafis riprende personaggi, vicende e immagini dal mondo classico – in questo caso, il viaggio di Ulisse per tornare ad Itaca narrato nell’Odissea – e li reinterpreta con gli occhi di un uomo del Novecento. Questo processo di reinterpretazione può avvenire in diversi modi: nella maggior parte dei casi, Kavafis immaginava nelle gesta dei grandi nomi della classicità sentimenti nuovi, privati, taciuti dalla tradizione ufficiale della storia e del mito ed incentra su di essi le sue poesie. Ovviamente la reinterpretazione ha anche un valore di attualizzazione: questi sentimenti, infatti, sono quelli dell’uomo contemporaneo che può così rispecchiarsi nei suoi testi.

In “Itaca”, però, l’operazione che compie è un’altra: il viaggio di Ulisse diventa metafora di un significato esistenziale. Non è un sentimento, quindi, né un’emozione, ma un’idea a venire veicolata attraverso le immagini della classicità.
E di quale idea, di quale significato si tratta? Kavafis è ben conscio che ogni uomo, se vuole dare un senso alla sua vita, deve dare ad essa uno scopo: Itaca, la meta del viaggio, metafora del sogno da realizzare. Ma a questa verità aggiunge qualcosa: che ad essere importante non è tanto la meta, quanto il viaggio – la vita.
Ogni uomo, come Ulisse, intraprende un viaggio per raggiungere la sua meta, la sua Itaca. Kavafis ci invita a non avere fretta di arrivare a destinazione e a far durare il viaggio il più possibile, vivendo fino in fondo ogni esperienza che questo può regalarci. E ci dice anche quali sono queste esperienze: “le mattine estive / in cui […] / entri in porti mai visti prima”, cioè le novita; gli “aromi voluttuosi”, i piaceri; e “imparare dai sapienti”, la conoscenza.
Perché? Perchè è il viaggio la nostra vita e non la destinazione; perché è durante il viaggio che possiamo e dobbiamo vivere e non quando saremo arrivati; perché Itaca, tutto questo, potrebbe non offrircelo e se noi non cogliamo l’occasione di arricchirci di esperienze adesso, rischiamo di non avere più la possibilità di farlo. Itaca, la nostra meta, potrebbe non avere “nulla di più […] da dar[ci]”: la sua ricchezza è il viaggio stesso che ci ha donato, dal momento che senza di lei non saremmo partiti. Fuor di metafora: il più grande valore dei nostri sogni è quello di innescare il movimento e il viaggio che affronteremo per realizzarli, e non quello che ci offriranno una volta giunti a destinazione.

E voi, cosa ne pensate? Conoscevate questa poesia? Come ogni capolavoro, anche “Itaca” si presta a tante interpretazioni diverse quanti sono i lettori: io vi ho raccontato la mia, voi come la leggete?


Raccolta di poesie del poeta greco Costantino Kavafis che contiene "Itaca", pubblicata in Italia dalla casa editrice Einaudi.

Se volete leggere “Itaca” e le altre poesie di Kavafis, potete acquistare la sua raccolta qui. Vi ricordo che, acquistando attraverso questo link, voi pagherete la stessa cifra ma a me sarà riconosciuta una piccola percentuale della vostra spesa e starete quindi contribuendo al mio progetto.

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