A Marìa Esther Vàzquez

Nessuno riduca a lacrima o rimprovero
questa dichiarazione della maestria di
Dio, che con magnifica ironia
Mi diede insieme i libri e la notte.

Di questa città di libri fece padroni
occhi privi di luce, che soltanto
possono leggere nelle biblioteche dei sogni
gli insensati paragrafi che cedono

le albe al loro affanno. Invano il giorno
prodiga per loro i suoi libri infiniti,
ardui come gli ardui manoscritti
che perirono ad Alessandria.

Di fame e di sete (narra una storia greca)
muore un re tra fontane e giardini;
io affatico senza rotta i confini
di questa alta biblioteca cieca.

Enciclopedie, atlanti, l’Oriente
e l’Occidente, secoli, dinastie,
simboli, cosmi e cosmogonie
offrono i muri, ma inutilmente.

Lento nella mia ombra, la penombra vuota
esploro con il mio bastone indeciso,
io, che mi raffiguravo il paradiso
sotto la forma di una biblioteca.

Qualcosa, che certamente non si nomina
con la parola caso, governa queste cose;
un altro ricevette già in altre annebbiate
sere i molti libri e l’ombra.

Vagando per le lente gallerie
sento spesso con orrore sacro
che sono l’altro, il morto, che avrà fatto
gli stessi passi negli stessi giorni.

Quale dei due scrive questa poesia
di un io plurale e di una sola ombra?
Che importa la parola che mi nomina
se è indiviso e uno l’anatema?

Groussac o Borges, guardo questo caro
mondo che si deforma e che si spegne
in una pallida e vaga cenere
che assomiglia al sonno e all’oblio.

(Jorge Luis Borges, Poesia dei doni)


Borges era un lettore appassionato, a tal punto che lui stesso sembrava considerarsi prima un lettore che uno scrittore. Celebre è la citazione “Che altri si vantino delle pagine che hanno scritto;/ io sono orgoglioso di quelle che ho letto”, tratta dalla poesia “Un lettore” e ripetuta dall’autore in numerose occasioni diverse. Da questo, non a caso, è derivata una delle caratteristiche più evidenti e, paradossalmente, originali dell’opera di Borges: quella di essere una letteratura parassitaria, che non trae ispirazione dalla vita ma da altra letteratura.
Certo, è vero – potrete dirmi – ma non è vero anche che tutta la letteratura deriva in qualche modo dalla letteratura che l’ha preceduta? Sì, ma questo è ancora più vero nel caso di Borges, che lo fa in modo più aperto, smaccato e programmatico, tanto nelle sue poesie quanto nei suoi racconti, giocando con i libri che ha letto e amato e con altri che invece non esistono, ma che si inventa lui. Allora non ci sorprende che l’immagine che è rimasta di lui è quella del “topo di biblioteca”, che il lettore medio si immagina Borges come un uomo che ha vissuto più nei libri che nella vita vera. E non ci sorprende che Borges stesso possa scrivere di sé “io, che mi raffiguravo il paradiso/ sotto la forma di una biblioteca” – la stessa biblioteca che è anche un motivo ricorrente in tutta la sua produzione letteraria (ad esempio nel racconto “La biblioteca di Babele”, nella raccolta Finzioni”).

Ma Borges, che amava così tanto leggere, soffriva anche di problemi alla vista. La sua cecità, ereditata dal padre, peggiorò progressivamente anno dopo anno fino a diventare pressoché totale intorno al 1955, lo stesso anno in cui fu anche nominato direttore della Biblioteca Nazionale Argentina di Buenos Aires. Ed è proprio in seguito a questa coincidenza di eventi che scrisse la Poesia dei doni – una poesia che mi ha colpito fin dalla prima volta che l’ho letta.
A colpirmi è stata soprattutto la prima strofa. Perché? Be’, perché in questi quattro versi Borges chiede di non essere compatito e di non rimproverare né Dio né la sorte per questa concomitanza di eventi che di primo acchito verrebbe da definire beffarda, che lo ha privato della vista nello stesso momento in cui ha messo a sua disposizione un’intera biblioteca. Al contrario, è quasi con meraviglia che guarda alla “dichiarazione della maestria di/ Dio, che con magnifica ironia” gli diede insieme “i libri e la notte”. Ma è sorprendente notare, invece, un’altra ironia: quella di Borges, che in questi versi dimostra ancora una volta di saper accogliere anche le cose più serie – anzi, forse soprattutto le cose più serie – con quell’autoironia che lo ha sempre contraddistinto. E, addirittura, di saper trasformare anche momenti come questo in poesia.

Ancora un’ultima cosa. Verso il finale della Poesia dei doni Borges scrive che “un altro ricevette già in altre annebbiate/ sere i molti libri e l’ombra”. A chi si riferisce? Qui Borges parla di Paul Groussac, scrittore argentino che fu direttore della Biblioteca Nazionale di Buenos Aires dal 1885 al 1929, anno della sua morte, e che, come Borges, perse la vista mentre ricopriva questo incarico. Nelle ultime strofe il poeta non si limita a paragonarsi al suo omologo, ma si spinge fino ad identificarsi con lui: “Vagando per le lente gallerie/ sento spesso con orrore sacro/ che sono l’altro”, finendo per mettere in discussione il concetto stesso di identità. “Che importa la parola che mi nomina/ se è indiviso e uno l’anatema?”. Questo in realtà non è una novità per Borges, che riflette sul concetto di io e sul tema del doppio in molti altri suoi scritti, come ad esempio “Borges ed io”, nella raccolta “L’artefice” del 1960 – in cui, per altro, è inclusa anche la “Poesia dei doni”.

E voi, conoscevate questa poesia? Cosa ne pensate?


Copertina libro "L'artefice" di Jorge Luis Borges, edito da Adelphi, in cui è contenuta la Poesia dei doni

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Copertina del libro "Il fattore Borges" di Alan Pauls, edito da Sur.

Se siete interessati all’opera di Borges e volete conoscere meglio questo autore, vi consiglio la lettura del saggio di Alan Pauls “Il fattore Borges”, un ottimo saggio, tanto preciso nel trattare della vita e della poetica del nostro autore, quanto accessibile e piacevole alla lettura. Potete trovarlo qui.

Infine, se l’articolo sulla “Poesia dei doni” di Borges ti è piaciuto, potrebbe interessarti leggere un articolo sulla poesia “Itaca” di Kavafis! Lo trovi qui.